14 – Le montagne si sfasciano… le dolomiti crollano.

14 – Le montagne si sfasciano… le dolomiti crollano.

Prof. Antonio Dal Prà geologo maggio 2021 in tempi di pandemia

Le montagne si disgregano, cadono a pezzi. Lo sfasciume rotola sui versanti e sul fondovalle, i fiumi lo caricano e se lo trasportano nelle pianure a riempire le depressioni e infine a mare, a depositarsi sui fondi oceanici.

Se frequentiamo le nostre montagne, a piedi o comodamente seduti in auto, ci rendiamo conto, nel nostro piccolo, del fenomeno della disgregazione dei massicci montuosi. E’ sufficiente per esempio osservare gli enormi ghiaioni che ammantano il piede delle pareti rocciose delle dolomiti: al Pordoi sotto il Sella, lungo la valle del Boite presso Cortina ai piedi dell’Antelao e del Pelmo, sui versanti meridionali delle Tofane, e lo stesso Latemar appare come un enorme sfasciume di gole, guglie, torrioni, pinnacoli pronti a crollare. E l’enorme accumulo di blocchi, massi, ciottoli e ghiaie sul versante sud dell’Obante nelle Piccole Dolomiti Vicentine, dove inizia l’impluvio del famoso torrente Rotolon. Anche i rilievi del famoso porfido del trentino-alto adige mostrano ai piedi estesi accumuli detritici di cubetti di roccia.

Tutti questi potenti ed estesi depositi di materiali detritici derivano evidentemente da una serie di processi che hanno aggredito la roccia madre sfasciandola.

Quante volte abbiamo letto sui giornali del crollo improvviso di guglie e pareti rocciose: da sempre vengono segnalati episodi di frane da roccia: sulle Pale di San Martino, sul Civetta, sulle Cinque Torri, sul Sorapis, sulle Tofane e anche sulle Piccole Dolomiti dal gruppo dell’Obante, e molte molte altre. Le cronache sono piene di segnalazioni, da secoli. 

Chi ha viaggiato in qualche deserto, dove un tempo c’erano delle montagne, incontra talora dei picchi rocciosi nerastri di lava basaltica, isolati tra le sabbie, alti centinaia di metri, con basi rotondeggianti, che sono vecchi camini vulcanici colmati di lava. La montagna che li conteneva non esiste più, disgregata e trasportata altrove a pezzi e pezzetti. E visto che ci troviamo nei deserti, i colleghi sedimentologi mi dicono che quelle immense distese di sabbia che osserviamo in varie parti del mondo, dall’Africa, alle Americhe, dalla Cina, alla Mongolia, all’Australia, provengono dallo smantellamento di montagne, i cui frammenti sono stati trasportati e accumulati dal vento, da distanze di anche centinaia di km. Miliardi di miliardi di granuli di quarzo e feldspati ben selezionati e accumulati in milioni di anni. La roccia madre è quasi sempre un granito o litotipi simili.

Ma non preoccupatevi. Questi fenomeni sono sempre avvenuti, avvengono e continueranno ad avvenire. Come al solito, nulla di nuovo sotto il cielo o sotto il sole, come preferite. E come diceva il nostro vecchio avo Eraclito: panta rei, tutto scorre, tutto si trasforma. Importante è che noi ci rendiamo conto che questi processi non vanno misurati con il nostro metro, piuttosto corto, ma col metro di Madre Natura, la cui storia si misura in milioni di anni. E con questi fenomeni, cari miei, dobbiamo abituarci a convivere.

Per farvi capire l’importanza del fattore tempo, sappiate che molte delle catene montuose più antiche, formatesi prima dell’orogenesi Alpino- Imalaiana, cominciata circa 60 milioni di anni fa, non esistono più. Tutte distrutte, passo dopo passo, e trasformate in penepiani.

Le catene montuose più antiche in Europa risalgono a circa 400 milioni di anni fa, nei Paesi Scandinavi: la disgregazione le ha trasformate in basse collinotte rotondeggianti.

Le nostre vallate sono colme di materiali alluvionali detritici provenienti dalle montagne circostanti, le nostre vaste pianure si sono formate per il colmataggio di grandi depressioni, con materiali detritici trasportati a valle dai fiumi e derivati dallo smantellamento dei rilievi montuosi. Gli spessori di questi estesissimi depositi sono di varie centinaia di metri.

La formazione delle catene montuose è ben nota ai geologi che studiano la storia della terra. In breve, a parole povere e chiedendo perdono ai colleghi, la crosta terrestre a partire dalla sua formazione, circa 4.5 miliardi di anni fa, ha subito trasformazioni formidabili. La famosa Pangea, il continente unico, si è spaccata e suddivisa in pezzi, le famose zolle tettoniche, che galleggiano allegramente su un fondo viscoso e molle e si muovono liberamente qua e là. Si sono così formati i continenti e gli oceani, tuttora in evoluzione continua. Quando due o tre zolle si scontrano, collidono, sono guai: terremoti, vulcani e i due margini al contatto si spingono, si urtano con pressioni enormi: normalmente uno dei due cede, viene sconfitto nello scontro e viene spinto in basso, in profondità, entro il magma viscoso, mentre l’altro, vincitore, scorre sopra, si corruga, si arrotola, si piega, si spacca e si forma la catena montuosa, di solito parallela alla linea di collisione, lungo la quale si allineano vulcani e aree ad alta sismicità.

Sulla terra i processi di orogenesi si sono ripetuti più volte nella sua lunga storia. Le catene di montagne sono minuscole rughe rispetto alle dimensioni della superficie terrestre, ma ricordatevi che la metà della superficie solida è occupata da rilievi montuosi. 

Grandi catene sono presenti anche nei fondi oceanici. E’ ben nota la poderosa dorsale medio-atlantica, la più grande catena montuosa esistente sulla terra, lunga dal Polo Nord all’Antartide, che corre in mezzo all’oceano parallelamente alle coste delle Americhe da una parte, e alle coste africane ed europee dall’altra.

In questi poderosi ed estesi fenomeni di sollevamento e scorrimento le rocce vengono piegate, fratturate, fagliate e spostate di anche centinaia di km. Sappiate che nessuna delle rocce che vedete sulle montagne si è formata nel luogo dove si trova ora. Tutte hanno subito spostamenti, dislocazioni.

Tutto questo lungo discorso per entrare nell’esame dei processi di smantellamento delle montagne, che tendono a sfasciarsi. E sono ben predisposte alla demolizione a causa della loro fratturazione e dislocazione congenite. Aspettano solo che qualcuno dia loro una spintarella e si ribaltano e franano. 

Ora proviamo ad analizzare e considerare quello che succede oggi.

Il motore fondamentale è la forza di gravità, che regola ogni movimento che avviene sulla terra e che tende a portare in basso ogni cosa. Ma questa forza non è determinante, occorrono altri fattori che predispongano la roccia alla disgregazione, e altri fattori che agiscano come causa determinante al progressivo smantellamento. 

Primo fattore predisponente, abbiamo visto, è la fratturazione. Tutte le rocce sono fratturate, considerati i movimenti che hanno subito. La fratturazione è naturalmente differente, in ordine al tipo di roccia e agli scorrimenti che ha subito. Particolarmente fragili sono i calcari e le dolomie, come appare ben chiaro se osserviamo le nostre Dolomiti, regno di pinnacoli, torrioni, campanili, gole, incisioni.

Le fratturazioni della roccia consentono agli agenti attivi di stuzzicare, graffiare, morsicare, spingere e provocare nel tempo i distacchi di frammenti e pezzi, che franano poi a valle.

La degradazione delle rocce nelle montagne è piuttosto complessa e dovuta a più cause, talora concomitanti, quasi tutte individuabili in fattori climatici, che agiscono attaccando e scomponendo la roccia fratturata dai movimenti tettonici subiti lungo la sua storia. 

Se avete pazienza vediamo come.

Nei paesi a clima non caldo un ruolo molto importante è svolto dal processo di alternanza del gelo e disgelo dell’acqua di pioggia o di neve. Il processo, di grande efficacia disgregativa, è connesso con l’aumento di volume che l’acqua subisce quando passa dallo stato liquido allo stato solido. Vi è mai scoppiata una bottiglia d’acqua dimenticata nel freezer ? L’aumento è importante, di circa il 9 %. Quando congela entro le fratture della roccia o entro i pori l’acqua, aumentando di volume e se l’espansione è impedita, esercita pressioni elevatissime, che ripetute nel tempo possono portare all’allargamento delle fessure e allo sgretolamento o al crollo di porzioni più o meno voluminose di roccia. Il fenomeno è molto diffuso nelle regioni temperate a clima freddo-umido e nelle regioni montuose, dove le temperature ballano attorno allo 0°. Pensate, ragazzi, che la pressione esercitata sulle pareti delle fessure dal ghiaccio a -22° può raggiungere i 2100 kg/cm2: un valore molto elevato, vicino alla resistenza alla compressione della roccia stessa.

Questo processo è la causa principale della disgregazione e dei frequenti crolli nelle rocce dolomitiche delle nostre montagne, che avviene nella stagione del disgelo, quando l’acqua ritorna allo stato liquido. I montanari lo sanno bene e anche quelli che frequentano le strade in montagna soggette a crolli di roccia: il pericolo si presenta in primavera!

Nelle regioni a clima arido e in alta montagna, con rilevante insolazione diurna e con basse temperature notturne, agisce un altro importante processo di degradazione e frantumazione delle rocce: mi riferisco alla disgregazione termica. Gli sbalzi termici, che possono essere notevoli, di anche 30°, provocano dilatazioni e contrazioni dei minerali e della roccia, che portano alla disgregazione e alla riduzione della massa in sabbioni o in frammenti scagliosi, a causa della bassa conduttività termica della roccia stessa. Nelle rocce a grana fine o costituite da un solo minerale si verifica il fenomeno della desquamazione o sfogliazione della massa, come una cipolla: la causa è la differente dilatazione e contrazione tra le parti superficiali della roccia soggette agli sbalzi termici e le parti interne più protette. Nelle rocce costituite da più minerali, come il granito ( quarzo, ortoclasio, plagioclasi, miche ), la disgregazione è causata dal differente coefficiente di dilatazione tra i vari minerali componenti, che pian piano frantumano la roccia e la riducono in un sabbione.

Il processo di disgregazione termica è molto diffuso anche nelle Dolomiti, alle alte quote, e si affianca efficacemente alla disgregazione per alternanze di gelo e disgelo.

A queste efficaci azioni meccaniche operate dal gelo e dagli sbalzi termici danno una mano anche altri fattori, seppure meno importanti: il vento, che tende a ribaltare le parti instabili delle rocce e aiuta alla corrosione; la pioggia, che dilava e trascina le particelle prodotte dalla disgregazione e aggredisce soprattutto le rocce friabili (argille, marne, arenarie, tufi), si infiltra entro le fratture, crea pressioni, lubrifica, riduce l’attrito e plasticizza le argille; le radici della vegetazione, che crescendo allargano le fessure; i terremoti, che ogni tanto danno uno scrollone alle montagne, provocando frane; e i ghiacciai, che portano a valle quantità di materiali detritici. Da considerare anche l’erosione dei fiumi e dei torrenti, soprattutto nelle vallate montane e nei ripidi canaloni, che intacca il piede dei versanti.

Oltre alle azioni fisiche di disgregazione alcuni tipi di rocce sono soggette anche all’alterazione chimica dei minerali componenti. Si tratta di processi di ossidazione, di idratazione, di soluzione, che interessano soprattutto le rocce silicatiche porose, come tufi e brecce vulcaniche, o rocce vulcaniche friabili. Questi fenomeni possono portare alla argillificazione delle rocce.

L’evidenza maggiore della disgregazione delle montagne sono le frane, che sfasciano i versanti e colmano i fondovalle, offrendo ai fiumi e torrenti imponenti quantità di materiale sciolto da portare nelle pianure e nei mari.

E’ ben noto che le frane sono sempre avvenute, avvengono e continueranno ad avvenire. Non ci sono santi. I vecchi montanari sorridono quando sentono il baccano mediatico che si fa quando crolla una guglia nelle Dolomiti. Sorridono perché da sempre assistono ai periodici distacchi di roccia, specialmente nella stagione del disgelo.

Ci sono esempi di frane molto antiche, testimoniate dagli squarci ancora visibili sui versanti e dagli accumuli di massi e blocchi a valle, come le Masiere di Vedana allo sbocco della valle del Cordevole ( 50 milioni di mc ), derivate da una enorme crollo di roccia. Dante nella sua Commedia cita i Lavini di Marco in sinistra Adige presso Rovereto, una grande frana di scivolamento di strati di calcari. Nel 1771 venne giù la frana di Alleghe, un pacchetto di banchi di 10 milioni di mc che scivolando a valle sbarrò il fiume Cordevole creando un lago permanente. Ricordo la grande colata di materiali argillosi che da sempre scende a valle in Alpago nella zona del Tessina, inarrestabile. E la frana, preistorica, del Brustolè sul Posina presso Arsiero con i sui 20 milioni di mc. La grande frana di blocchi e massi sulla testata del torrente Rotolòn, sotto le pareti dolomitiche dell’Obante presso Recoaro. La gigantesca frana della Val Pola, 35 milioni di mc, che nel 1987 sbarrò l’Adda, creando enormi problemi. E le famigerate colate detritiche che da secoli scendono rovinose dall’Antelao in val Boite nella zona del villaggio di Cancia: le disastrose frane di Cancia hanno una storia lunghissima, a partire almeno dal 1300, e hanno seminato morte e distruzione decine e decine di volte, e ancora oggi si sta lavorando per creare protezioni e ripari.

E nei nostri piccoli Colli Euganei? Decine e decine di modeste frane nei materiali argillosi e tufacei, che fanno crepacciare le case, scivolare a valle i vigneti, cedere le sedi stradali.

Cari ragazzi, non c’è niente da fare, le montagne si sfasciano, le dolomiti crollano, i rilievi si abbassano, le nostre care catene montuose sono destinate a ridursi piano piano. Ma abbiate fede, ci pensa la nostra cara Madre Natura: le zolle tettoniche, che scorrazzano qua e là galleggiando allegramente sui magmi viscosi sottostanti, scontrandosi tra loro stanno già pensando di sollevare altre giovani catene montuose. Non domani, certamente. Per vederle ci vuole pazienza, bisogna aspettare almeno qualche milione di anni.

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